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Ma quali “grandi dimissioni”. Gli italiani si tengono stretto il posto fisso

Alberto Fraja
Secondo i dati di uno studio della School of management del Politecnico di Milano, 25 milioni di persone nel mondo negli ultimi sei mesi del 2021 hanno deciso di lasciare il posto, 4,5 solo a novembre scorso.
Luglio 13, 2022
Checco Zalone nella celebre interpretazione cinematografica del 'posto fisso'

La chiamano Great Resignation, in italiano grandi dimissioni. Si tratta di un fenomeno nuovo, siccome insorto immediatamente dopo la pandemia da Covid. Ha avuto lil suo luogo di incubazione negli Stati Uniti. In cosa consiste? Nel fatto che un bel giorno un pisquano qualsiasi decide, più o meno d’emblée, di lasciare il posto di lavoro fisso (beato lui) per andare a cercare altrove non si capisce bene cosa non avendo il fenomeno di cui qui si discetta una lettura univoca. Secondo i dati di uno studio della School of management del Politecnico di Milano, 25 milioni di persone nel mondo negli ultimi sei mesi del 2021 hanno deciso di lasciare il posto, 4,5 solo a novembre scorso. In Italia, stando alle rilevazioni del ministero del Lavoro le cessazioni richieste dal lavoratore sono state 2 milioni 45mila nel 2021, contro il milione e mezzo registrato dell’anno precedente, con un incremento del 30,6 per cento (più 479 mila), una cifra che ha rappresentato il 19,3 per cento di tutti i rapporti di lavoro interrotti. Più uomini (35,1 per cento) che donne (24,6 per cento). Dati che si riferiscono naturalmente ai contratti a tempo indeterminato, quelli che senza le dimissioni del lavoratore avrebbero potuto tranquillamente proseguire. In cima alla classifica delle regioni, Lombardia, Veneto, Toscana ed Emilia Romagna.
Alcuni hanno letto questi numeri come una risposta ai mesi di pandemia, altri teorizzano un mutamento sostanziale e ormai inarrestabile dei paradigmi lavorativi. Una fuga dal posto fisso che non rappresenta più il grande sogno, per cercare un’occupazione più appagante e con maggiori soddisfazioni.
Ma è proprio così? Secondo l’economista Paul Krugman, che da mesi sta cercando di capire i numeri record delle dimissioni americane e il perché la forza lavoro americana si stia assottigliando nonostante il recupero dei posti di lavoro e il tasso di disoccupazione sceso al 3,6%, prima di emettere sentenze sarebbe il caso di guardare i numeri. Viene così fuori che non c’è alcun movimento “antiwork” di chi lascia il lavoro e ne rifiuta uno nuovo. Anzi, il tasso di partecipazione degli americani nella fascia d’età 25-54 anni è aumentato di recente e non diminuito. E nella fascia d’età superiore, non si sono registrati pensionamenti anticipati di massa. Molti di coloro che avevano lasciato il lavoro poi sono rientrati nel mercato. È vero che un numero insolitamente alto di lavoratori ha lasciato il vecchio ufficio, ma lo ha fatto per traslocare altrove, scegliendo un impiego presumibilmente migliore. Insomma, più che a una grande dimissione siamo a un grande rimpasto. O “grande aspirazione”, come la chiama la Harvard Business Review.
E se negli States non c’è nessun movimento “antiwork”, figuriamoci in Italia. Da noi solo il 3% della forza lavoro ha detto addio alla vecchia azienda, anche si si tratta pur sempre del 33% in più nel 2021 rispetto al 2020. Le possibili spiegazioni anche da noi sono: dimissioni del 2020 rimandate al 2021, paura di contrarre il Covid sul posto di lavoro, la possibilità di lavoro in remoto. Ma i dati non sembrano supportare nessuna di questa ipotesi. Entrando nei dettagli delle cifre, come ha fatto di recente l’economista Francesco Armillei, non emerge nessun rimbalzo da dimissioni rimandate, né c’è una minore tendenza a dimettersi tra coloro che lavorano da remoto e una maggiore tendenza tra le professioni più esposte al Covid-19. A leggere bene i dati, insomma, si tratta di un fenomeno che coinvolge chi ha già prospettive di ulteriore occupazione o nuovi dì progetti di vita, e quindi livelli di sicurezza e buone condizioni di spendibilità sul mercato. Quindi? Quindi le cose stanno molto più terra terra rispetto alle più complicate analisi sociologiche dei soloni in servizio permanente effettivo. Nel Belpaese siamo tutti un po’ Checco Zalone. Pur di non mollare il posto fisso accetteremmo di andare a vivere anche nelle Isole Svalbard a 20 gradi sotto lo zero.

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