Il centrodestra si presenterà unito ma diviso sulla leadership (nel senso che Berlusconi e Salvini si stanno inventando di tutto pur di non prendere atto del fatto che Giorgia Meloni ha molti più consensi di loro), il Pd ha il problema delle alleanze, mentre il cosiddetto centro somiglia all’isola che non c’è di Peter Pan. Quello che tutti però faticano a capire è che il tempo a disposizione è pochissimo. Inoltre, con l’attuale sistema elettorale, soltanto gli schieramenti più grandi possono essere competitivi nei collegi maggioritari. I più piccoli, a meno di improbabili accordi di desistenza, dovranno concentrarsi sul proporzionale. Per nulla facile.
IL REBUS DEL DOPO ZINGARETTI
Il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti si candiderà al Senato. Si stanno valutando ragioni di opportunità e sondaggi per capire quando è meglio dimettersi. La prima data possibile è il 22 agosto, dopo la presentazione ufficiale delle candidature e delle liste. Si voterebbe a novembre. La seconda è qualche settimana dopo l’elezione, quindi a ottobre. Si andrebbe alle urne a gennaio. In entrambi i casi Daniele Leodori, il vicepresidente, subentrerebbe a “Zinga” per la guida della Regione. Non ci sarà il tempo per le primarie, che fra l’altro non piacciono a Enrico Letta. Il partito dovrà decidere tra Leodori (sostenuto da Dario Franceschini), Enrico Gasbarra (voluto da Mancini, Bettini, Gualtieri e Zingaretti ma fortemente indigesto a Calenda) e Alessio D’Amato. Un aspetto che il Pd, concentrato sulle alleanze per le politiche, sta sottovalutando moltissimo.
IL MASCHILISMO DEL CENTRODESTRA
Quando Silvio Berlusconi era stabilmente sopra il 30% con Forza Italia, neppure si poneva il problema della leadership del centrodestra: Gianfranco Fini (An), Umberto Bossi (Lega) e Pierferdinando Casini (Ccd) dovevano solo acclamarlo. Oggi Fratelli d’Italia è ampiamente il primo partito. Non soltanto nei sondaggi (che comunque contano), ma anche nelle ultime votazioni alle amministrative. Ieri il fondatore di Forza Italia è passato dall’affermazione che “il leader lo scelgono gli eletti (ndr: non gli elettori)” a “chi prende un voto in più fa il leader”. Nel mezzo c’è stato l’incontro con Giorgia Meloni, che deve aver alzato la voce. Nel frattempo però Lega e Forza Italia vanno verso una federazione: le smentite di queste ore sono di facciata. E’ già tutto pronto. L’obiettivo di Matteo Salvini è avere più voti e provare a contendere la leadership alla Meloni. Il tallone d’Achille della coalizione è questo. Dicono che Giorgia Meloni negli ultimi giorni stia rileggendo le Catilinarie di Cicerone: usque tandem… Fino a quando abuserete della mia pazienza? Un problema reale, perché se gli elettori non avvertiranno nei fatti la piena compattezza del centrodestra, non saranno disposti a dare totale fiducia. Inoltre la leader di Fratelli d’Italia, sondaggi alla mano, potrebbe perfino ragionare sulla possibilità di presentarsi in solitaria.
A PARTE CALENDA… NULLA
Soltanto il leader di Azione cresce nei sondaggi in una dimensione non tanto centrista ma equidistante tra i due poli principali. Nel frattempo fa quello che ha fatto negli ultimi anni: litigare furiosamente con il Pd, che proprio non lo vuole come alleato. Carlo Calenda deciderà il da farsi in autonomia e non sono escluse sorprese. Il resto è un rebus: Matteo Renzi ha cambiato simbolo rovesciando la R, Luigi Di Maio fa monologhi per stroncare Giuseppe Conte, l’avvocato del popolo cerca di convincersi di essere un rivoluzionario, Giovanni Toti gira a vuoto, Beppe Sala proprio non si rende conto che fare il sindaco di Milano non c’entra nulla con la leadership politica. Il Pd di Enrico Letta vuole realizzare un’alleanza sul Modello Draghi. C’è un precedente: il Modello Monti. Finito malissimo alle elezioni, con la “non vittoria“ di Pierluigi Bersani, la resurrezione di Silvio Berlusconi e l’affermazione dei Cinque Stelle.
GLI ANNUNCI SULLA STAZIONE TAV
Ieri il presidente della Provincia Pompeo ha fatto sapere di aver incontrato, insieme al vicepresidente nazionale di Confindustria Maurizio Stirpe il ministro delle infrastrutture Enrico Giovannini. Per parlare della fermata Tav di Ferentino-Supino. Assicurando che “nonostante il momento di incertezza politica il lavoro degli amministratori prosegue senza sosta nell’esclusivo interesse dei territori”.
E’ fuffa montata, solo fuffa. A quest’ora bisognava già aver superato la fase dello studio di fattibilità. Siamo già immersi in una campagna elettorale nella quale verrà detto di tutto. Ma in questo territorio nulla di ciò che era stato promesso si è realizzato: dalla bonifica della Valle del Sacco alla sospensione del decreto di riperimetrazione del Sin. Più tutto il resto. Sono argomenti che presumibilmente faranno parte del confronto per le regionali più che per le politiche. Nicola Zingaretti, candidato super blindato al Senato, non parlerà di questo. La Stazione Tav servirebbe a questa provincia come l’ossigeno, perché soltanto così si aggancerebbe davvero l’Alta Velocità. Ma non si tratta di una struttura che sarà realizzata da questo o da quel Governo, nazionale o regionale. L’opera doveva essere inserita nel Piano di Ferrovie, con risorse certe e tempi stabiliti. Non c’è. Gli annunci di un ministro che tra qualche settimana sara impegnato a fare altro non servono. Non ha alcun senso continuare a disegnare castelli sulla sabbia. In riva al mare.