A parte le ragioni di carattere personale, i veri motivi che stanno dietro il No di Marzi sono di calcolo e di natura politica. Domenico Marzi, che in mattinata ha fatto conoscere a tutti, ed in primis al Pd, la propria indisponibilità ha detto No innanzitutto perché ha capito che “sotto il vestito” del campo largo a Frosinone c’è poco o nulla.
Non gli sono bastati gli attestati di stima di Stefano Pizzutelli e degli altri cespuglietti nervosi della sinistra per accettare l’insidioso rientro nell’agone politico cittadino.
La seconda ragione è stata l’amara constatazione che il Pd a Frosinone tolto Francesco De Angelis è poca roba. I soliti nomi che stancamente portano avanti l’attività di partito, con scarsi risultati e con la pretesa, ogni cinque anni, di mettere veti a questo o a quel nome in virtù di una non meglio precisata rendita di posizione. In questo appaiati al centrodestra cittadino i vertici del Pd non hanno favorito, nel capoluogo, la crescita di una classe dirigente di trentenni/quarantenni la cui mancanza si sta rivelando decisiva per delineare il quadro di partenza della prossima tornata elettorale.
Infine, l’elemento pratico. La totale assenza di una struttura partitica organizzata in grado di affiancare qualunque candidato in una corsa, di per sé già proibitiva, faticosa e piena zeppa di trappole insidiose.
Dopo aver vinto in due occasioni, dopo aver governato per cinque anni con l’anatra zoppa, dopo essere uscito tra gli applausi da un decennio di onorata guida della città, l’avvocato ha ripensato a qualche sgarro di troppo ricevuto dal suo partito, alle liti con Michele Marini, alle urticanti pretese di troppi personaggi in cerca d’autore e magari dopo un caffè con il suo amico Giggino Neglia ha ringraziato tutti e ha lasciato la patata bollente sola soletta. Nel campo largo.