Si fa sempre fatica a collegare l’idea della morte a personaggi che l’immortalità hanno ampiamente guadagnato in terra, attraverso virtù così visibili da diventare un patrimonio di tutti.
Quando si canta un brano di De Andrè, si ascolta Mozart o si mima una mossa di Totó non si pensa di stabilire un ponte con l’al di là, ma al contrario si traccia una linea retta con la vita e con le sue espressioni più significative.
Il genio non muore, sposta i confini dal recinto visibile a quello nascosto; continua a farci compagnia e resta esempio, lampo, rappresentazione. Da bambini, quando giocavamo nel cortile di casa, non potevamo evitare di nominarlo: ad ogni dribbling riuscito l’iperbole era Pelé.
La Tv non era ancora così generosa nel raccontare con le immagini la magia del calcio. Tutti però sapevamo che nel Santos giocava il più forte di sempre, uno che aveva vinto due mondiali e si apprestava a prendersi il terzo, in una finale con l’Italia. Era il 1970, quando gli azzurri campioni d’Europa e vicecampioni del mondo, al ritorno dal Messico furono oggetto del lancio di pomodori. La colpa? Non aver saputo opporsi in modo adeguato al Brasile di Pelé.
Benché avessi nove anni, mi parve gesto irriconoscente e tumultuoso, emozionale e poco sensato. Compresi negli anni a venire quanto poco sensato e tumultuoso sia per definizione il tifo e quanto disti dalla meccanica quantistica, dalla fisica e da ogni altra scienza protesa alla verità. Il calcio contagia e accomuna, esaspera e divide, ma non ho mai ascoltato alcuno mettere in dubbio la grandezza di Pelé.
Del ragazzino che sbalordì il mondo nel 1958, trascinando il Brasile al primo titolo iridato della sua storia, del giocatore acclamato che nel 62 fece il bis, si guardavano immagini in bianco e nero e si cantava una magnificenza indiscussa. Pelè non era semplicemente un atleta, ma un postulato, una legge naturale. Quando saltò più in alto di Tarcisio Burgnich e depose il pallone alle spalle di Albertosi, mi parve un accadimento inevitabile, alla stregua di un oggetto che, lanciato in aria, torna a terra più o meno velocemente arrendendosi alla legge di gravità.
Pelè era una leggenda, l’uomo dei mille gol, il calciatore che sapeva dribblare, calciare da fuori, colpire di testa e in rovesciata, come nella cinematografica “Fuga per la vittoria”. Impossibile non innamorarsi di quella favola dei nostri giorni: il bimbo povero, così povero da disegnarsi le scarpe di gioco per non provare imbarazzo, che diventa il re di un mondo ricco e fatato come quello del calcio. Indossa solo la maglia del Santos, prima di andare a lanciare il football anche in America, con i Cosmos, pioniere di quella che diventerà un’abitudine della Lega statunitense, pronta a raccogliere i singhiozzi di alcuni tra i più celebri calciatori del mondo.
Edson Arantes do Nascimento sta al calcio come Leonardo alla pittura, del calcio mostra l’essenza con movimenti eleganti e felini. La sua è una danza col pallone, un’espressione di gioia e bellezza. Da questa rappresentazione esteticamente perfetta scaturiscono numeri impressionanti: 1281 gol in 1363 partite, anche se il dato riconosciuto riguardo i match ufficiali dice 757 in 816 incontri. Pelè è stato il sogno proibito di tutti i club europei, e si dice che la Juventus nel 1961 abbia offerto un milione di dollari al presidente del Santos. È rimasto in Brasile, come il Colosseo in Italia e il Louvre in Francia. L’ultimo dribbling, a quel male implacabile e irrispettoso della storia, non è riuscito. Pelè ha lasciato la Terra in un giovedì di dicembre, all’ospedale Albert Einstein, curioso intreccio di geni, gioco della sorte. Ora la squadra imbattibile, oltre a Maradona, Cruijff, Di Stefano, Garrincha, Best e Paolo Rossi, ha preso anche lui: Edson Arantes do Nascimento, per tutti Pelé. Ad allenarli ci piace immaginare un “vecio” con la pipa. Così, dopo aver sbalordito un pianeta, proveranno tutti insieme a stupire le stelle.