Compie 50 anni Alex Del Piero. Chissà perché nell’immaginario collettivo i fuoriclasse sono sempre giovani, al riparo dall’usura del tempo. Alex fa il possibile per sembrarlo anche al di fuori delle suggestioni, perché si mantiene in forma, sorride e affascina come superbamente faceva sul rettangolo di gioco.
Del Piero appartiene a quella ristretta cerchia di campioni amati da tutti, senza distinzioni di bandiera. Però è normale che chi ama la Juve lo ami un po’ di più, perché lui della squadra bianconera è stato simbolo, orgoglio, essenza.
Al di là delle 705 presenze e dei 290 gol, che sono cifre e perciò pretendono di riassumere ciò che non si può, mai sentito infatti si possa riassumere la poesia, Alex è lo juventino simbolo, perché capace di restare fedele alla Vecchia Signora anche dopo Calciopoli. Lui, il giocatore italiano più apprezzato sui campi d’Europa, in B, a giocare contro il Rimini e a segnare il 200esimo gol della sua storia bianconera contro il Frosinone, esordiente nel campionato cadetto. Si chiamano atti d’amore e nello sport sono sempre più rari. Solo lui e Francesco Totti tra i campioni dell’era moderna hanno saputo identificarsi con una maglia, come avevano fatto in passato Mazzola, Rivera, Bettega, Antognoni e Gigi Riva, rombo di tuono per la penna di Gianni Brera.
Il giovane talento venuto dal Padova ci mise poco a mettere in mostra le proprie virtù, talune così cristalline e singolari da meritarsi un marchio. Così, il tiro a giro dal vertice sinistro dell’area, la pennellata verso l’incrocio dei pali, fu presto il tiro alla Del Piero, come la punizione a foglia morta era di Mariolino Corso e come lo stile Fosbury fu per sempre dello statunitense di Portland Richard Douglas, detto Dick, che inventò un nuovo modo di avvolgersi oltre l’asticella del salto in alto.
Per l’Avvocato fu Pinturicchio e poi, suo malgrado, anche Godot, quando il recupero dal brutto infortunio di Udine pretese tempi un po’ lunghi, dopo aver scalfito le sue sicurezze di predestinato. Ma tornò, tornò e dipinse ancora, anche quando l’Avvocato cominciò a guardarlo dal Cielo.
La standing ovation al Bernabeu, dopo una doppietta d’autore, il gol di tacco nel derby contro il Toro, la rete del 2-0 nella semifinale con la Germania nel vittorioso mondiale 2006 sono tutte perle, ma la più significativa resta, per i tifosi bianconeri, quella zampata impossibile per il 3-2 alla Fiorentina, una prodezza balistica che forse sovvertì per sempre le gerarchie tra quel ragazzino con colpi da fenomeno e quell’altro che fenomeno lo era già, Roby Baggio, l’artista che faceva a meno delle ginocchia per raccontare favole con piedi fatati. Fu un ideale passaggio di consegne, perché Michelangelo e Raffaello non potevano convivere alla stessa corte, ma magari stupire ancora entrambi, sotto diverse bandiere, sì… Ora lo attendono ancora in bianconero, in vesti dirigenziali, ma intanto lui fa l’opinionista e vive serenamente, senza abbandonarsi troppo ai ricordi, con quel modo cristallino di interagire, con quella pacatezza che lo aiutò nei momenti difficili e che lo rese sempre equilibrato: un campione atipico, lontano dalle esuberanze che spesso accompagnano le eccellenze di ogni campo.
Il calcio è stato anche di George Best, la sregolatezza che dribbla le convenzioni; o di Zigoni, a spasso con una pelliccia e una gallina al guinzaglio. Del Piero invece è stato l’antidivo, poco amante dei riflettori, maniaco del lavoro ed esempio di serietà, un Sinner con gli scarpini, lontano dagli eccessi, ma con la sfrenata fantasia del fuoriclasse ad accompagnarlo sui campi di tutto il mondo. Il suo gol al River Plate, quando in Italia era l’ora di pranzo, controllo perfetto e girata fulminea, gli consentì di firmare la finale della Coppa Intercontinentale. Campione d’Europa e campione del mondo per club, campione del mondo in maglia azzurra, scudetti come gocce di pioggia e un sogno da bambino sempre vivo nel cuore. Questo era sul campo, questo è nella vita, Alessandro Del Piero.