Ha accettato la sfida, candidandosi al consiglio regionale e se la giocherà fino in fondo. Preferenza su preferenza. Antonio Pompeo ha scelto la location che ha accompagnato tutti i suoi principali appuntamenti politici: l’hotel Bassetto a Ferentino. Immancabile il traffico bloccato sulla Casilina, come tutte le volte che l’ex presidente della Provincia e sindaco dimissionario di Ferentino si muove per eventi del genere. Sala piena e tanto entusiasmo.
ANTONIO POMPEO, LA PREFERENZA DI OPINIONE
Tantissimi gli amministratori (del Pd e non solo) presenti. C’era soprattutto il sindaco di Arce Luigi Germani, candidato alla presidenza della Provincia, sconfitto per la solita manciata di voti ponderati che sono mancati all’appello per la presenza della solita manciata di “franchi tiratori” costantemente su piazza. Ma il “modello” era valido e lo resta. Lo stesso Germani ha infiammato la platea, non risparmiando attacchi all’altra area del Pd. Il concetto che ha caratterizzato la manifestazione però è stato quello della preferenza di opinione.
Per distinguerla dalla preferenza che nasce invece dall’organizzazione che Pensare Democratico di Francesco De Angelis riesce ogni volta a mettere in campo grazie ad una macchina che lavora alla perfezione sulle “truppe” della componente. Sono due modi diversi di intendere il partito: Pompeo è già proiettato alla visione di Stefano Bonaccini e Dario Nardella, cercherà di allargare i confini da subito. Con Sara Battisti, elemento di punta di Pensare Democratico, se la giocherà alla pari.
Con un tipo di preferenza però del tutto differente, imperniata sull’opinione della gente più che sul sostegno “militare” da parte della struttura.
Antonio Pompeo punta a capitalizzare il consenso ottenuto con la “buona amministrazione” di Ferentino e della provincia.
Conterà molto pure il “ticket”. Con Pompeo ci sarà Maria Concetta Tamburrini, consigliere comunale di Cassino, esponente di riferimento del sindaco Enzo Salera. Pompeo rappresenta Ferentino, Frosinone e l’area nord, la Tamburrini il sud di questa provincia. Anche dal punto di vista geografico la copertura territoriale è totale. Non ci sono vendette da consumare, ma sarebbe ipocrita parlare di partito unito alle regionali. Il Pd resta spaccato in due, come sempre. La partita non finirà archiviando il risultato del 12 e 13 febbraio. I conti si faranno al congresso, alle primarie. Antonio Pompeo ha voluto dimostrare due cose: intanto lui nel partito ci resta e non ha alcuna intenzione di uscire (Politica7 lo aveva anticipato). In secondo luogo se la gioca in campo aperto, con il sostegno di tanti amministratori. Certamente punta all’elezione, ma guarda anche al futuro.
L’ERRORE DI D’AMATO
Il candidato del centrosinistra alla presidenza della Regione Lazio ha lanciato l’ennesimo appello al Movimento Cinque Stelle: “Ticket anche in extremis con i grillini per non far vincere Rocca”. Porte spalancate quindi a Donatella Bianchi, che dovrebbe accettare il ruolo di “vice”. Carlo Calenda, leader di Azione, ha subito detto: “Faccelo sapere rapidamente Alessio, in tempo per presentare un nostro candidato alternativo a questo eventuale pastrocchio con i 5 Stelle.
Basta giochini e alchimie, parliamo di programmi”. Nell’ex Campo largo non ci sono più spazi, la sconfitta alle politiche del 25 settembre non ha indotto i protagonisti a cambiare posizione. Le elezioni del Lazio evidentemente non sono così importanti per i leader. Giuseppe Conte, che altrove (Lombardia) ha fatto l’accordo, nel Lazio evidentemente vuole effettuare le prove generali per il sorpasso storico nei confronti del Pd in vista delle europee del 2024. Poi nel Movimento può sempre succedere tutto e il contrario di tutto, ma in ogni caso la coperta resterebbe cortissima. Carlo Calenda (che nel Lazio ha la sua roccaforte di voti) e Matteo Renzi vogliono affondare il Partito Democratico, anche per la mancata intesa in Lombardia.
Ma il problema più grande riguarda soprattutto il Pd. Enrico Letta tra poco più di un mese non sarà più il segretario, l’errore più grande che ha commesso è quello di non aver convocato il congresso subito dopo la batosta del 25 settembre. Il Pd non ha una leadership legittimata per due appuntamenti cruciali, vale a dire le regionali nel Lazio e in Lombardia. Non esiste un centrosinistra, neppure in Parlamento. Giuseppe Conte è politicamente incompatibile con Carlo Calenda e Matteo Renzi. E viceversa. Questo Pd non ha più né i voti né l’autorevolezza per fare da cerniera o da garante. E una sconfitta nel Lazio toglierebbe ulteriori certezze.
Con l’appello ai Cinque Stelle Alessio D’Amato ha certificato i timori dell’intera classe dirigente del Pd laziale. Sono i timori di una sconfitta difficile da evitare. O più semplicemente D’Amato ha deciso che, comunque vada, non intende fare da capro espiatorio. In fondo se nel Lazio il Pd è in queste condizioni gli errori sono stati di Nicola Zingaretti, Goffredo Bettini, Claudio Mancini, Roberto Gualtieri, Francesco Boccia e di tutti quelli che si sono rifiutati di prendere atto che le cose stavano andando in un’altra direzione.