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Il calcio e le bandiere, un binomio che non c’è più

Roberto Mercaldo
Dietro l’addio di Dybala, tra ragioni gridate e rancori sopiti
Marzo 22, 2022
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Paulo Dybala

Un incontro dall’esito scontato. La dirigenza juventina e Jorge Antun, procuratore di Paulo Bruno Exequiel Dybala, sapevano prima ancora di sedere intorno al tavolo della Continassa che sarebbe stata fumata nera. Una telenovela in salsa calcistica, fatta di promesse non mantenute, di fragilità manifeste, di interessi da salvaguardare anche a costo di perder la faccia. Nel calcio business, con società quotate in borsa e atleti di spicco trasformati in vere e proprie aziende, non c’è posto per i sentimenti.

Si valuta il rendimento di un calciatore in relazione ai possibili introiti che un suo gol o una sua maglietta venduta possono determinare. Alle emozioni, quelle che discendono da una giocata sublime dritte dritte nel cuore di un tifoso o di un innamorato del calcio, non si presta più alcuna attenzione. Non rientrano nei valori monetizzabili, non ci sono algoritmi che ne possano controllare l’andamento. E allora il numero 10 della Signora il prossimo anno non sarà più Paulo Dybala, che sette anni or sono portó sotto il cielo spesso grigio di Torino un raggio di sole di Palermo, i suoi sogni da ventunenne predestinato e il suo sinistro che somiglia a una sinfonia di Litz, per chi di Litz sa carpire la magia. Cinque anni con tante soddisfazioni, altrettanti titoli tricolori, molti gol, molte giocate funamboliche e qualche inevitabile delusione. Eh sì, ci sono anche quelle nella storia di un calciatore. E sono tanto più cocenti quanto più elevate son le aspettative. Come per ogni calciatore superiore alla media, a Torino e in tutto lo Stivale a tinte bianconere nascono i pro- Dybala e i Dybala out perché incompiuto. E i secondi possono gridar più forte le loro ragioni in coincidenza di due stagioni travagliate, in cui Paolino smarrisce la strada dell’integrità fisica.

Con Pirlo e con l’Allegri bis i suoi infortuni diventano la regola, puntuali e gradevoli come una cartella esattoriale. Da “Sivorino” al centro del progetto a un contratto che all’improvviso sembra meno scontato. Le promesse di ottobre e il revisionismo di febbraio, tra mugugni, mezze verità e disillusioni. La manifesta fragilità muscolare di Dybala spaventa il club bianconero e lo porta a ridisegnare il progetto tecnico. Arriva Vlahovic, l’ariete, il bomber, e poco importa che Paolino sia il suo partner ideale. La boa è superata, indietro non si torna più. Per un’inversione di rotta servirebbe un improvviso piegar la testa del 10, un mitigar le pretese. Jorge Antun non ci pensa proprio, lui è la controparte, ha i suoi grafici non modificabili. E così perdono tutti, il giocatore che lascia un club prestigioso, la Juventus che perde a parametro zero il suo giocatore più talentuoso e quelli che, tra un impegno e l’altro di questa frenetica corsa senza scopo, ogni tanto avevano il vezzo di ascoltare una sinfonia di Litz. Dopo i ritiri di Del Piero e Totti, i calciatori simbolo sembrano inevitabilmente consegnati al cassetto dei ricordi. Noi ricordiamo Mazzola, Rivera, Riva e poi in epoca più recente Scirea, Zanetti, Maldini.

Una maglia da sposare per sempre, come una compagna di vita cui consegnare gioie, delusioni, amarezze, esaltazioni e sogni. Una seconda pelle, un modo di essere, una melodia dell’anima. Questo era la maglia per i giocatori simbolo prima che il calcio varcasse i confini del sogno per quelli un po’ aridi dell’alta finanza. Il giocatore industria, col suo codazzo di agenti, preparatori, psicologi, promoter finanziari e cortigiani multiformi, non può più derogare alla regola del guadagno. Il club di oggi, con esperti che calcolano pure l’incidenza di un respiro sul “core-business”, non può correre il rischio di commettere errori. Ci sia consentito un pizzico di nostalgia.

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