Di Giusy Migliorelli
Un Referendum del quale non si sta parlando molto, quello abrogativo del prossimo 12 giugno, o lo si sta facendo con scarsità di informazioni chiare.
Si sa, la limitatezza del lessico non consente l’effettiva e consapevole descrizione di qualcosa.
Ne deriva un’inevitabile approssimazione su temi tutt’altro trascurabili o subordinati: il buon funzionamento della giustizia e della magistratura.
Sono conscia che il linguaggio sotteso alle tematiche – e i rimandi legislativi – è articolato ed è avvertito come un’ulteriore complicanza nelle giornate mai semplici di tutti noi.
Una specie di fastidio ma anche una specie di pericolo perché l’inettitudine alla comprensione di temi sui quali si fonda lo stato di diritto (e di rimando, lo stato sociale) ha effetto, dapprima sull’affluenza al voto referendario poi sulla partecipazione democratica.
In antitesi ai “benaltristi” e agli “allarmisti”, che invocano l’esclusiva del Parlamento sul alcuni temi e delegittimano il referendum quale metodo o nel merito, tradendo una visione elitistica della democrazia, ritengo necessaria l’espressione di questo voto nell’ ottica di evitare l’immobilità argomentativa sulla giustizia; d’altronde l’attuale è il Parlamento meno adatto a concepire riforme sulla giustizia costituzionalmente orientate.
Ecco allora che il voto dovrebbe essere percepito come una opportunità.
Opportunità di abrogare o meno delle norme in materia di
− incandidabilità e divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi.
− esigenze cautelari nel processo penale
− passaggio delle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa nella carriera dei magistrati
− composizione del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione e dei Consigli giudiziari e delle competenze dei membri laici che ne fanno parte
− elezione dei componenti togati del Consiglio superiore della magistratura.
La chiarezza espressiva è d’obbligo ai fini di tentare una spiegazione dei quesiti, almeno dei primi tre.
Con il primo quesito si chiede di abrogare la cosiddetta “Legge Severino” ovvero il decreto legislativo n.235/2012 che stabilisce, ad horas, l’incandidabilità alle cariche elettive o di Governo per chi è stato condannato per delitti non colposi.
Eticamente la norma può apparire giusta nel senso di impedire a una persona condannata – ad esempio per corruzione – di ricoprire cariche pubbliche. Tuttavia, chi amministra enti locali, come i sindaci, viene sospeso anche dopo una sentenza non definitiva. Questo presta il fianco a vizi di costituzionalità contrastanti con il principio della presunzione di non colpevolezza.
Se vince il “si”, viene meno l’astratto automatismo per cui in caso di condanna scattano le tipologie di preclusioni di sospensionepreviste dalla norma e sarà rimessa alla prudenza del giudice stabilire eventualmente l’interdizione dai pubblici uffici. Sia per parlamentari che sindaci.
Infatti, l’eventuale abrogazione non cancella il sistema delle sanzioni accessorie e le disposizioni del codice penale in tema di interdizione perpetua o temporanea dai pubblici uffici.
Il secondo quesito investe unicamente l’abrogazione dell’esigenza cautelare consistente nel pericolo di commissione di delitti della stessa specie prevista dall’art. 274, comma1 lettera c) ultimo inciso del codice di procedura penale.
L’abrogazione lascia inalterate le altre esigenze cautelari, in particolare il pericolo di fuga, l’inquinamento delle prove e resta sempre applicabile la misura cautelare allorché si via il rischio che siano commessi “gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata”.
La ratio dei promotori dell’abrogazione dell’inciso parte da presupposto che la disposizione abbia consentito un uso eccessivo delle misure cautelari e della custodia cautelare in carcere, in particolare. Ma la motivazione addotta non è solo di fatto. Anche di principio. Si contesta l’idea che qualcuno la cui responsabilità non è ancora stata accertata, che sia dunque sospetto ma goda della presunzione di non colpevolezza, possa subire l’eventualità di una misura cautelare. Per semplificare: la misura si fonderebbe su un sospetto basato su un sospetto.
Il terzo quesito, attiene, più strettamente al sistema di funzionamento della magistratura; se vincesse il “si” non ci sarebbe più la possibilità per i giudici di passare dalla funzione requirente (tipica dei pubblici ministeri) a quella giudicante. Quindi ne conseguirebbe una scelta inziale
I “nostri” pubblici ministeri appartengono alla stessa categoria dei giudici: entrambi vengono infatti reclutati con lo stesso concorso e possono passare da una funzione all’altra, anche più volte, nel corso dei quaranta-quarantacinque anni della loro carriera.
L’unico paese dell’Unione europea che ha tali caratteristiche è la Francia ove però, a differenza dell’Italia, il pubblico ministero è sottoposto alla supervisione gerarchica del Ministro della giustizia.
In nessuno dei paesi con sistema processuale accusatorio il pubblico ministero appartiene allo stesso corpo dei giudici.
Nei paesi di common law l’appartenenza di pubblico ministero e giudici allo stesso corpo verrebbe considerata come una violazione del principio della divisione dei poteri.
Alcuni sostengono, nell’ambito del dibattito referendario, che la separazione delle carriere proverebbe il pubblico ministero della “cultura della giurisdizione”, ma è bene chiedersi anche se proprio la commistione non rischi di alimentare la “cultura dell’inquisizione” anche in chi giudica.
Tralascerei gli argomento ad “effetto” che la soluzione della separazione delle carriere è praticata in tutti gli ordinamenti liberal – democratici più avanzati e che fu sostenuta con argomenti anche “laici” da Giovanni Falcone.
Vero è che il quesito non riguarda la separazione delle carriere in senso stretto. Lo strumento referendario, certamente, in questo caso, ha dei limiti: occorrerebbe una riforma costituzionale per centrare l’obbiettivo della separazione delle carriere. Ne siamo consapevoli.
In ogni caso, sembra che il Referendum sui temi della giustizia stia trascinando con sé la polemica che i quesiti e la materia non siano affrontabili con per mezzo di questo strumento.
Dire che i cittadini non debbano occuparsi di questioni complesse nega la storia dei referendum, come ha sostenuto Giovanni Guzzetta, e nega l’idea stessa della democrazia. Nella quale, ci piaccia o no, l’analfabeta e l’intellettuale hanno lo stesso diritto di decidere e pesano allo stesso modo.
Il problema semmai non è il diritto di deliberare, semmai gli strumenti pe conoscere.
E conoscere non è un risultato non facilmente raggiungibile, a giudicare dal livello di informazione offerta – su questo referendum !-.
Informare e discutere per poter deliberare è un valore che dovrebbe essere caro a tutti, a prescindere dalle scelte politiche.
Non esiste complessità lessicale di un testo che non possa trovare strade oneste di semplificazione in vantaggio dei votanti, così come la complessità dei quesiti non può essere argomentazione per invocare all’astensionismo.
Per dirla con “1984” di George Orwell, se è vero che il pensiero può corrompere il linguaggio è anche vero che il linguaggio può corrompere il pensiero.