Giampiero Mughini non si dà pace. “È inaudito che in Italia non esista un museo dedicato ai Settanta e dintorni”. Poi rassicura e si rassicura. “O forse no, forse quel museo in Italia esiste. A casa mia. Scarno, povero, da riempire nove o dieci stanze in tutto. Ma c’è”.
Mughini, intellettuale raffinato quant’altri mai, vive nel quartiere romano di Monteverde Vecchio in una villetta gialla, con un bel giardino e con le finestre tonde a forma d’oblò come quelle degli hobbit. Parva sed apta mihi casa Mughini lo è fino a un certo punto. Adatta allo spirito da collezionista compulsivo di mirabilia del proprietario, senz’altro sì. Piccola mica tanto siccome essa appare come un mini Vittoriale in cui s’affastellano, in una sorta di caleidoscopio e organico itinerario memorialistico, i prodotti del «genio» che decine di artisti, scrittori, artigiani e designer hanno scodellato nell’ultimo mezzo secolo.
Il viaggio ideale in questo museo della memoria e delle memorie si materializza nell’ultimo libro di Mughini, “Il Muggenheim” (Bompiani, 288 pagine, 20 euro). A sentire (e leggere) la descrizione del suo proprietario, ovunque il guardo giri nella magione di Monteverde Vecchio trovi qualcosa di prezioso. Di qua una poltrona o una lampada di Gaetano Pesce. Di là una terna consolle-libreria-scrittoio di Ico Parisi, designer «degno della tribù eletta di cui facevano parte un Carlo Mollino o un Gio Ponti».
Sulla terrazza svetta un albero in alluminio blu di Andrea Salvetti (molti ospiti di Giampiero lo usano come segnale per capire di essere arrivati nel posto giusto). E ancora: quadri e oggetti di design di Bruno Munari, libri d’artista di Enzo Mari, il portaombrelli di Antonia Campi, la chaise longue Canapo 837 di Franco Albini prodotta da Cassina, e i vasi di Guido Gambone, giusto perderete qualcuno.
È il Muggenheim appunto, definizione crasi coniata dall’amico pittore Pablo Echaurren e subito fatta sua da Mughini per indicare questa sorta di casa-studio che è insieme casa-collezione (due cose «avvinghiate assieme tanto nella mia anima che nella vita reale»).
Mica abbiamo finito con le chicche, anzi con i piccoli tesori. Ecco ad esempio i collage fotografici di Franco Vaccari o la celebre putrella (portaoggetti/centrotavola) di Enzo Mari o quello che Mughini definisce “lo sgorbio” di Gambone.
E che dire della libreria Suvretta di Ettore Sottesa, dove stanno allineati i libri sul design. A proposito di libri: Mughini, che si definisce «bibliofolle», ha una vasta collezione di prime edizioni pregiatissime, molte autografate, da Malaparte a Svevo. Eppoi plaquette, libri d’artista che, messi insieme, occupano un intero piano di cinque stanze
Poi ci sono i manifesti, gli inviti di mostre, cataloghi, riviste, ex-libris erotici, volantini degli anni di piombo e vinili rari (soprattutto di progressive rock). Il “Muggenheim” è una sorta di caleidoscopica guida illustrata con cui Mughini esplora (e fa esplorare) le grandezze – grafiche, di design, letterarie e musicali – del Novecento. La geografia è vasta: c’è la Bologna di Freak Antoni e di Andrea Pazienza, cioè quella del Settantasette (anno «che meriterebbe un museo») tanto grande e creativa nel suo ribellismo tragico, ma c’è anche la New York di Andy Warhol, con la Factory fucina del pop e l’idea di unire i Velvet
Underground a Nico, da cui scaturì il celebre album della banana sulla copertina. C’è la Parigi della pubblicistica erotica, o quella anni ’50 dei lettristi, iconoclasti in potenza di tutto ciò che odorasse (o puzzasse) di tradizione e quella malinconica dei ricordi da studente, a sogguardare vetrine. C’è anche la Modena di Giuliano Della Casa, di Luigi Ghirri, di Franco Vaccari, «artista totale».
Il Muggenheim è, insomma, la sintesi di un mondo, e di un secolo. Nelle pagine del libro, Mughini racconta come è arrivato ad amare certi designer e a voler possedere i risultati fisici del loro «genio».
Sembrerebbe emerge una sorta di affinità materica e materiale tra tutti questi tesori e il loro proprietario. Bellissime cose che per l’autore rappresentano anche il rifugio dalle insidie della vita. Perché forse la bellezza può stancare (come è accaduto con la collezione dei futuristi che l’autore ha venduta per consumata passione) ma non tradisce mai. «Invece gli amici e le amiche, anche i più cari, eccome se lo fanno» dice Mughini. E allora, mentre «scompaiono le presenze umane di un tempo e si allentano le affinità generazionali che prima esistevano e davano calore alla tua vita reale», o «se i percorsi di ciascuno di quelli vanno per strade diverse dalle tue, com’è del tutto naturale», restano però gli oggetti cari come conforto e consolazione.