La siccità, certo. Ma soprattutto le abbondanti perdite d’acqua dalla rete idrica fanno sì che nel Lazio si gridi all’emergenza. Il paradosso è stato evidenziato negli ultimi giorni da più parti sulla stampa e non solo.
Il grido d’allarme, partito dal mondo agricolo per la scarsità di portata dei corsi d’acqua superficiali (fiumi, torrenti e laghi) da cui si attinge per l’irrigazione, sta pian piano interessando anche l’approvvigionamento idrico a fini potabili (alimentato nel Lazio principalmente da sorgenti e pozzi, con impiego secondario ed emergenziale anche di acqua lacustre e un potabilizzatore – finora non entrato in funzione – del Tevere per Roma).
Il fatto è che si continua a prelevare dall’ambiente molta più acqua di quella che servirebbe, solo perché le reti idro-potabili sono un colabrodo: è come se prendessimo l’acqua dal pozzo col secchio bucato, ne rovesciassimo più della metà per strada e poi ci lamentassimo che non piove, quando con un secchio nuovo (o ben tappato) avremmo avuto il doppio da bere, pure con la siccità.
L’edizione romana del Corriere della Sera è stata la prima a puntare il dito sull’eccessiva dispersione delle reti del servizio idrico. E se a Roma ci si straccia le vesti per un 38% di perdite dall’acquedotto (Acea sostiene invece siano solo il 28%) c’è da avere un mezzo infarto se si pensa che nel Pontino la dispersione idrica supera il 70% ed in Ciociaria si registra il record nazionale del 76% di dispersione.
Se la siccità ha un peso notevole nella crisi idrica del mondo agricolo, potrebbe non avere lo stesso effetto in quello del servizio idro-potabile, se solo ci si fosse mossi nel fare qualcosa per abbattere le perdite lì dove superano i trequarti del acqua immessa in rete.
Questo vuol dire che, vada per l’agricoltura, ma la carenza di acqua potabile non è tutta colpa della siccità. Forti responsabilità sono da attribuire a chi gestisce il servizio idrico nel Lazio ed ha fatto poco o niente per diminuire le perdite.
Il caso record della provincia di Frosinone è un esempio lampante: per rifornire i ciociari di circa 30 milioni di metri cubi (tanti ne fattura Acea) ne vengono prelevati da sorgenti e pozzi ben 120 milioni (dati dell’ultimi bilancio di sostenibilità 2020). Il gestore del servizio idrico, cioè, sottrae risorsa idrica per quasi 4 volte quella di cui si avrebbe bisogno se le reti acquedottistiche fossero state sistemate e bonificate. E si va avanti così da anni nell’indifferenza generale.
In Ciociaria si fa con 120 milioni di metri cubi, quello che si poteva fare con 30. E quanto costa tutto ciò in energia, risorse, eccetera? Non c’è da stupirsi che anche la tariffa idrica sia la più cara d’Italia.
Ieri, anche Legambiente Lazio ha indicato quella dell’abbattimento delle perdite idriche come la prima azione da intraprendere per contrastare l’annunciata calamità idrica. Perché, sinceramente: in Ciociaria – come suggeriscono gli ambientalisti da salotto – gli utenti potranno anche fare la loro parte chiudendo l’acqua del rubinetto mentre si spazzolano i denti o evitando di scaricare il water dopo aver fatto solo la pipì, ma rischiano solo di fare ‘un baffo’ ai 90 milioni di metri cubi d’acqua buttati per strada dall’Acea.
Ma le cose non vanno bene neanche a Roma. Ieri, quali rimedi da assumere se continuerà a non piovere per le prossime settimane – e non sembra si prevedano precipitazioni – sono stati annunciati per la capitale: la riduzione della portabilità dell’acqua ai piani alti delle abitazioni, la sospensione dell’erogazione notturna e le autobotti nei quartieri dove scarseggia già la risorsa idrica.