Di definizioni d’amicizia se ne possono rinvenire a millanta nella storia del pensiero filosofico. Marco Tullio Cicerone, prendendo da Aristotele, la considerava un bene imprescindibile per gli umani. Epicuro diceva che di tutte le cose che la saggezza procura per ottenere un’esistenza felice, la più grande è l’amicizia. “Nessun bene senza un compagno ci dà gioia” sentenziava Seneca e via così.
Di rado, tuttavia, s’è concentrata la riflessione sui meccanismi che regolano l’amicizia. Se ne discetta in Amici. Comprendere il potere delle nostre relazioni più importanti (Einaudi, 440 pagine, 21 euro) di Robin Dunbar. Quella di Dunbar, un antropologo britannico di 73 anni, è una sorta manuale di pronto uso, basato su ricerche solide, in cui si svelano le tante a volte poco note sorprese che costituiscono quel marchingegno così essenziale e infallibile chiamato l’amicizia.
Prima di tutto, raccomanda Dunbar, va considerato che questo rapporto d’affetto è un processo bidirezionale “che richiede a entrambe le parti di essere ragionevolmente accomodanti e tolleranti nei confronti l’una dell’altra, di essere disposte a riservarsi vicendevolmente del tempo”. E fin qui, si parva licet componere magnis, c’eravamo arrivati anche noi. Quel che noialtri, al contrario, s’ignorava è il dato sulla quantità di amici che secondo gli studi dell’antropologo d’Oltremanica un essere umano accumula nell’arco della propria esistenza: non più di 150.
A questo numero Danbar è arrivato studiando la relazione tra la dimensione dei gruppi sociali dei primati, uomo compreso, e la grandezza dei loro cervelli. Più neuroni si hanno, più si riescono a tenere a mente le caratteristiche di ogni membro del proprio gruppo e il modo migliore per mettersi in relazione con quello, che è precondizione per l’amicizia. Tanta organizzazione cerebrale ci permette di articolare le nostre relazioni secondo vari livelli di intimità e confidenza: quelle che Dunbar chiama le cerchie dell’amicizia.
“Queste cerchie si formano in base al modo in cui distribuiamo il nostro tempo con gli altri – spiega . Studiando una ricca selezione di società (che va dagli abitanti di Dundee – Scozia – agli agricoltori del Nepal e ai pastori Masai dell’Africa occidentale) posso dire che la persona media dedica grosso modo il 20 per cento del suo tempo di veglia (circa 3,5 ore) alle interazioni sociali“. Queste avvengono però su livelli diversi, che Dunbar ha rappresentato con cerchi concentrici: “Il numero massimo di facce a cui associamo un nome è 1.500, cinquecento sono i conoscenti (persone con cui prenderemmo una birra dopo il lavoro, ma che non inviteremmo alla nostra festa di compleanno), 150 quelle che ci sforziamo di contattare almeno una volta all’anno, 50 quelli che contattiamo almeno una volta ogni sei mesi, quindici gli amici-parenti che sentiamo almeno una volta al mese e cinque le persone a cui siamo emotivamente più vicini (io le chiamo “le spalle su cui piangere”) e che contattiamo almeno una volta a settimana. All’incirca il 60 per cento del nostro tempo sociale è riservato a tutti coloro che rientrano nella cerchia dei 15”.
Procediamo. L’amicizia è l’antemurale della solitudine. L’una e le altre sono due facce della stessa medaglia sociale. Ma l’amicizia fa soprattutto bene alla salute. Ricerche mediche recentissime hanno evidenziato la rilevanza degli effetti che le relazioni amicali producono non solo sulla nostra felicità, ma anche sulla nostra salute, sul nostro benessere e addirittura sulla durata delle nostre vite.
Un altro fattore importante è la personalità: “Gli introversi preferiscono dedicare maggiori quantità di tempo a un numero inferiore di amici – scrive Dunbar -. Gli estroversi invece puntano a costruire più relazioni, ma poi riservano meno tempo a ciascuno. Il risultato è che questi ultimi faticheranno di più a trovare qualcuno che corra in loro aiuto nel momento del bisogno”.
E a questo punto arriviamo a una questione vecchia come il cucco: può esistere amicizia tra uomo e donna? Dunbar non fornisce risposte ma solo dati statistici sui quali ognuno può trarre le proprie conclusioni.
L’autore cita uno studio sui giovani adulti tra i venti e i trent’anni di Suzanna Rose, psicologa dell’Università della Florida secondo il quale “le donne single e gli individui sposati di entrambi i sessi preferivano amici del proprio sesso in quanto garantivano un maggiore aiuto e una maggiore lealtà rispetto agli amici di sesso opposto. Quasi la metà delle donne sposate e un terzo degli uomini sposati ha dichiarato di non avere nessun amico dell’altro sesso a parte il coniuge. Le donne tendevano a vedere gli amici del sesso opposto come meno capaci, rispetto a quelli dello stesso sesso, di fornire intimità, tolleranza e compagnia. Gli amici del proprio sesso ottenevano punteggi piú alti degli amici di sesso opposto nelle scale di tolleranza, impegno, comunicazione, interessi comuni e affetto”. Altra questione dirimente. Sembra quasi che per le donne il sesso sia una conseguenza dell’amicizia, mentre per gli uomini sia una causa.
Perché le amicizie finiscono? Le amicizie muoiono quando non vediamo le persone in questione con una frequenza tale da mantenere la relazione al livello di intimità emotiva che la caratterizzava in precedenza, e in particolare quando nessuna delle due parti è in grado di trovare le energie per fare qualcosa al riguardo.