“Se non credi in te stesso, nessuno lo farà per te”. Non sembrava possibile e non volevamo crederci. Il 26 gennaio 2020 tutti eravamo sconvolti per un pezzo enorme di storia dello sport che ci lasciava. Tre anni fa la morte di Kobe Bryant, il Black Mamba dei Los Angeles Lakers cresciuto in Italia passando anche dal Lazio a Rieti, dove imparò a predicare il linguaggio universale del basket e a parlare italiano. Fondatore della filosofia che porta ancora il suo nome “Mamba Mentality”, insieme alla figlia Gianna ha chiuso la sua parabola in un tragico incidente in elicottero. Oggi lo vogliamo ricordare, da grande campione, su Politica7.
Tre anni fa la tragica morte di Kobe Bryant: l’indimenticabile leggenda Usa, cresciuta a Rieti e Reggio Emilia
Joe Bryant, padre di Kobe, dal 1984 al 1991 ha giocato in Italia: Sebastiani Rieti, Viola Reggio Calabria, Olimpia Pistoia, Pallacanestro Reggiana. Esperienze che hanno permesso a Kobe Bryant di assimilare e vivere a tuttotondo la cultura italiana. In un’intervista a Radio Deejay con Linus, un giorno disse: “Sono cresciuto qui in Italia. Sarà per sempre un posto vicino al mio cuore. Ho vissuto a Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia. Era più difficile per me fare amicizia perché lavoravo sempre. Ho più amici a Reggio Emilia, è stata l’ultima città dove ho vissuto ed ero più grande, avevo 13 anni“.
La Mamba Mentality, diventata un libro, anzi un museo di pagine fotografiche con l’introduzione di Phil Jackson, coach dei suoi cinque anelli NBA. A Kobe hanno sempre riconosciuto l’impegno e il rispetto. Sapeva essere spietato in campo, ma poi possedeva la capacità di stupirti e regalarti momenti di spiccata riflessione con le parole.
Grande per i suoi canestri, i tiri allo scadere, le schiacciate, la voglia di migliorarsi irrefrenabile e maniacale. Sul parquet delle arene americane con un sottomano, dall’arco del tiro da tre, nel ball-handling. E di farlo più di ogni altro avversario, squadra, essere umano. Uno dei suoi mantra infatti non mentiva: «Se lavorerai sodo, io lo farò più di te». Anche in bicicletta nel deserto: perché il talento da solo non basta. Ci vuole il lavoro, la dedizione, la mentalità vincente. Nel ricordo di Bryant, campione di tutti.
Dear Basket: la lettera di Kobe al suo primo amore
Caro basket,
dal momento in cui ho cominciato ad arrotolare i calzini di mio padre
e a lanciare immaginari tiri della vittoria nel Great Western Forum
ho saputo che una cosa era reale:mi ero innamorato di te
Un amore così profondo che ti ho dato tutto
dalla mia mente al mio corpo
dal mio spirito alla mia anima.Da bambino di 6 anni
profondamente innamorato di te
non ho mai visto la fine del tunnel.
Vedevo solo me stesso
correre fuori da uno.E quindi ho corso.
Ho corso su e giù per ogni parquet
dietro ad ogni palla persa per te.
Hai chiesto il mio impegno
ti ho dato il mio cuore
perché c’era tanto altro dietro.Ho giocato nonostante il sudore e il dolore
non per vincere una sfida
ma perché TU mi avevi chiamato.
Ho fatto tutto per TE
perché è quello che fai
quando qualcuno ti fa sentire vivo
come tu mi hai fatto sentire.Hai fatto vivere a un bambino di 6 anni il suo sogno di essere uno dei Lakers
e per questo ti amerò per sempre.
Ma non posso amarti più con la stessa ossessione.
Questa stagione è tutto quello che mi resta.
Il mio cuore può sopportare la battaglia
la mia mente può gestire la fatica
ma il mio corpo sa che è ora di dire addio.E va bene.
Sono pronto a lasciarti andare.
E voglio che tu lo sappia
così entrambi possiamo assaporare ogni momento che ci rimane insieme.
I momenti buoni e quelli meno buoni.
Ci siamo dati entrambi tutto quello che avevamo.
E sappiamo entrambi, indipendentemente da cosa farò,
che rimarrò per sempre quel bambino
con i calzini arrotolati
bidone della spazzatura nell’angolo
5 secondi da giocare.
Palla tra le mie mani.
5… 4… 3… 2… 1…Ti amerò per sempre,
Kobe