Gli operai dello stabilimento Stellantis di Piedimonte San Germano lavorano su un solo turno in regime di cassa integrazione. Ma all’orizzonte, in tempi brevissimi, c’è lo stop dell’attività produttiva all’interno dell’impianto. Perché il contratto di solidarietà attualmente in vigore scade il 31 dicembre. Ma anche perché mancano ordini e non c’è l’adeguamento del mix produttivo. Poi c’è la questione dell’indotto: sta crescendo a dismisura la protesta dei dipendenti di diverse aziende di servizi che lavorano per Stellantis. Il punto è che appalti e subappalti non verranno rinnovati. Una vera e propria bomba sociale che rischia di esplodere mandando a casa migliaia di lavoratori. Infine, i sindacati avvertono che se entro gennaio 2025 non si procederà al rinnovo contrattuale degli ammortizzatori sociali in deroga, potrebbero essere persi mille posti di lavoro.
Non c’è bisogno di aggiungere altro per rendersi conto della gravità della situazione. Non si tratta di un fulmine a ciel sereno, ma bisogna anche dire che Stellantis ha alzato un muro di gomma, non rispondendo mai al Governo (nonostante le quotidiane sollecitazioni del ministro Adolfo Urso), al Parlamento, alla Regione Lazio (la vicepresidente Roberta Angelilli è in pressing da mesi). La multinazionale sta procedendo lungo una strada che porterà allo stop della produzione nel sito cassinate. A quel punto sarà il Governo a ritrovarsi tra le mani una patata bollentissima. Perché per cercare di attutire l’onda d’urto di una bomba sociale senza precedenti dovrà intervenire ancora sul versante degli ammortizzatori sociali. Inutile farsi troppe illusioni: nel breve periodo non si può fare molto.
Però è necessario porsi seriamente il problema, nel medio e nel lungo periodo. Raffaele Trequattrini, commissario del Consorzio industriale del Lazio, da mesi insiste sulla possibilità di una riconversione. Citando pure i possibili players del futuro: Leonardo, Fincantieri. L’obiezione è quella che in questo modo bisognerebbe pensare ad una riconversione anche di tutta la galassia dell’indotto. Però è necessario chiedersi: andare avanti così a cosa porta? Ad una lunghissima e inesorabile agonia. Non ci sono le condizioni per una vera e seria ripresa occupazionale e produttiva all’interno dello stabilimento ex Fiat. Da anni e anni le uniche risposte sono quelle degli ammortizzatori sociali. L’automotive è stato centrale nello sviluppo della provincia di Frosinone, ma adesso quel sistema non esiste più. La strada indicata da Raffaele Trequattrini (quella di non stare lì ad aspettare ma mettersi ognuno a dare le prime possibili risposte) è l’unica percorribile, ma le associazioni di categoria, i sindacati e le istituzioni restano frenati. La realtà è che non c’è più tempo e bisognerebbe trovare il coraggio, tutti insieme, di assumere posizioni forti e innovative. D’altronde si può davvero pensare al rilancio dell’automotive nel cassinate se altrove il trend continua a peggiorare? E per altrove si intendono Italia, Europa, Occidente.
Il convegno organizzato dal sindaco di Roccasecca Giuseppe Sacco ha trasmesso un messaggio inequivocabile: o questo territorio inizia davvero a fare squadra o è condannato ad una ulteriore decrescita infelice che porterà all’isolamento. Eppure si continua a cincischiare. A quell’incontro mancava il sindaco di Cassino Enzo Salera. E con lui altri amministratori del territorio che magari non condividevano il fatto che il summit era stato voluto da Peppe Sacco. Così non si va da nessuna parte. Altro che Stazione Tav e tutto il resto. Va detta una cosa in modo chiaro: a Roma, nelle stanze dove si prendono le decisioni vere, il peso politico-economico-associativo-industriale-sindacale della Ciociaria è pari allo zero. Infatti quando ci sono opportunità da cogliere, non siamo noi a raggiungere il risultato: Amazon, Outlet di Valmontone, Centro fieristico e l’elenco potrebbe continuare. Ottenere la realizzazione di una Stazione ad Alta Velocità è operazione complessa e difficile. Perché gli investitori (Ferrovie dello Stato, Rfi, Trenitalia) guardano ai volumi di utenza, alle potenzialità come opera di bacino, ai collegamenti, a tutto il resto. Un elemento che potrebbe pesare è quello di un territorio unito che riuscisse a dimostrare, carte alla mano, di essere in grado di autofinanziarsi l’opera. O perlomeno di mettere sul tavolo una percentuale rilevante. Mettersi a fare i primi della classe sul tema Tav con lo scopo di ricavarsi spazi e visibilità come ha tentato di fare Nicola Ottaviani (peraltro brillante quando invece ha parlato della scellerata genesi che ha messo fuori gioco il nostro territorio dalla Zes) in un mesto remake della politica anni settanta-ottanta è mettere su un piatto d’argento alla politica romanocentrica un “no” che priverebbe il nostro territorio e tutto il basso Lazio di un’infrastruttura che allieverebbe, e di molto, la difficile riconversione industriale legata al declino dell’automotive e del suo indotto.
Purtroppo, e la storia insegna, se ci si continua a beccare come galli da cortile, ogni partita è persa in partenza.