Probabilmente non ci sono torte e candeline, nemmeno festoni e palloncini colorati. Nessuno ce li ha mai raccontati, i compleanni fra le stelle. Oggi però sono 70 anni che è nato Pietro Mennea, e ci piace immaginare che qualcuno lo ricordi anche lì, dove svaniscono il tempo, lo spazio e il dolore. Mennea ha avuto il privilegio di essere tra le stelle anche in forma corporea. Lui non era solo l’atleta italiano più rappresentativo. Era il sogno, il riscatto, la rivincita. Quando, curvo sul blocco di partenza, raccoglieva le energie per quel mezzo giro di pista, eravamo tutti con lui, dentro quel respiro trattenuto per 20 secondi, trascinati da quelle gambe rivoluzionarie, col tempo scandito all’unisono dal cronometro e da quel cuore generoso. A vederlo correre spalla a spalla con i colossi Usa, montagne di muscoli dai quadricipiti poderosi, non potevamo evitare di chiederci come facesse ad arrivargli davanti spesso, quasi sempre. Pietro Paolo Mennea non aveva il profilo di Delon, nè la carica sexy di Marlon Brando, ma era bello come gli eroi greci, quando mulinava le gambe con frequenze impossibili, quando, dopo aver disegnato la curva, volava sul rettilineo superando tutti coloro che nei primi 100 metri avevano avuto l’ardire di essergli davanti. Epica la rimonta sullo scozzese Allan Wells alle Olimpiadi di Mosca 1980. Storico e consegnato agli archivi il 19”72 di Città del Messico, primato mondiale dal 1979 al 1996 e ancora oggi, 43 anni dopo, primato europeo. Pietro Paolo da Barletta è stato campione d’Italia, campione d’Europa, campione olimpico ed ha fatto in tempo a salire sul podio dei mondiali, alla prima edizione, quella dell’83. Primatista mondiale dei 200 ed europeo dei 100, ha vinto tre ori continentali, uno nei 100 e due nei 200, ed è stato quattro volte finalista olimpico sui 200: terzo a Monaco 1972, quarto a Montreal 1976, primo a Mosca nell’80 e settimo a Los Angeles 1984. Mai nessuno è riuscito, e quasi certamente nessuno riuscirà, a ripetere una simile impresa. Mennea era l’atletica, era il campione dei campioni, quello che ci faceva sentire orgogliosi di essere italiani. A 20 anni, sconosciuto o quasi, a Monaco di Baviera sfidò il sovietico Valerji Borzov e salí sul podio con lui e Don Quarrie. Cominciò così la leggenda di quel velocista straordinario, la cui popolarità usciva dalle piste e dagli stadi ed entrava nei bar, nelle edicole, nelle piazze, nelle case. “Ma chi sei, Mennea?”, un modus dicendi che sollecitava un solo paragone, quello con il ciclista Fausto Coppi. L’airone di Castellaneta e la freccia del Sud, due immagini che uscivano dalla dimensione umana per acquisire quella di semidei: simboli, leggende, stelle. E come gli eroi greci Fausto Coppi, il campionissimo, e Pietro Mennea, la freccia, sono andati via presto dal mondo degli umani, dove ancora alberga e giganteggia la loro leggenda. Pietro Mennea, tanti record, tantissime vittorie e quattro lauree, per chiarire quanto sia importante un cervello autorevole nella formazione di un campione, ora racconta alle stelle la sua favola di volontà e di vittorie impossibili. Quei giganti impietriti davanti alla sua accelerazione si stanno ancora chiedendo perché mai non riuscissero a precederlo. La risposta è semplice. Il giovane Pietro aveva un sogno da raggiungere, a dispetto di impianti fatiscenti, scetticismo, dubbi, approssimazioni. Correvano insieme, lui e il suo sogno e nessuno può correre più veloce di un sogno. Settanta anni fa, a Barletta, nasceva Pietro Mennea. Da nove anni corre tra le stelle. Qualcuno dice che sia il più veloce anche lì.