Protagonista, senza dubbio, e come mai era accaduto nella storia recente. Si è preso la scena come un attore ispirato, capace di recitare fuori dal copione e di stupire la platea. Al momento di raccogliere il meritato applauso ha però balbettato e quel trionfo accarezzato, quel tributo d’affetto, è rimasto tra i desideri inappagati, come una foglia secca che scivola lentamente nel cuore.
Il teatro è il calcio, gli attori i nostri club nelle Coppe Europee e i ragazzi dell’Under 20 nel mondiale di categoria. Quattro opportunità di iscriversi a un albo d’oro, quattro chance sfumate, mai in modo netto in verità. Delle vicende poco fortunate di Roma e Fiorentina abbiamo già detto, ma la delusione cocente ancora morde i pensieri, dopo aver distrutto le speranze.
L’Inter, la meno attesa delle quattro all’atto conclusivo, ha giocato col cuore e ha mostrato al mondo come le distanze siderali disegnate incautamente dai fisici del calcio, quelli che comparano grandezze quasi parlassimo della scala di Pauling, fossero soltanto astrazioni. Il City ha vinto, è vero. Ha vinto senza rigori generosi o valutazioni errate, ha vinto perché ha estratto dal cilindro una giocata vincente, in una notte in cui le sue stelle non hanno brillato, i suoi meccanismi di gioco non hanno prodotto danni visibili alle linee avversarie e la sua superiorità è rimasta inespressa, come un teorema indimostrato.
I nerazzurri hanno pagato un paio di errori di mira esecrabili, perché in quel contesto era prevedibile che le occasioni arrivassero col contagocce e che perciò dovessero essere colte come una stella alpina, con coraggio e sprezzo del pericolo.
Lukaku e Lautaro non avevano forse i giusti bloccanti e discensori: la stella alpina è rimasta lì, rimpianto gigante di una stagione quantomeno contraddittoria, con 12 cadute in campionato e una finale di Champions strappata alla logica e a tante squadre partite con quell’obiettivo in testa.
AZZURRINI, NIENTE DA FARE CONTRO UN URUGUAY TARANTOLATO
La quarta finale non era nel contesto delle Coppe Europe. Quelle sono tre e abbiamo fatto l’en plein. Per la prima volta nella sua storia l’Italia si era guadagnata la chance di vincere il campionato del mondo Under 20. Dopo due sconfitte in semifinale nelle precedenti edizioni, stavolta aveva raggiunto l’atto conclusivo. A contenderle il titolo mondiale di categoria l’Uruguay, squadra forte tecnicamente e fortissima fisicamente. Le capacità di pressare alto, di aggredire l’avversario senza concedergli un respiro, sono state esposte con un pizzico di spavalderia anche nella finale. I nostri, eroi della competizione e ammirati per il gioco brillante e fantasioso, sono rimasti disorientati da quei tarantolati avversari che non lasciavano il tempo di pensare. Subito in due ad aggredire le caviglie, a rendere complesso ogni passaggio.
“Prima o poi si fermeranno” avranno senza dubbio pensato i nostri. Invece non si sono fermati. Casadei, il centrocampista bomber, Pafundi, il genietto dal sinistro incantato, Baldanzi, il tessitore sapiente, sono rimasti imprigionati in quella gabbia di irruenza e tumulto, in quel frenetico fronteggiare. La giocata prima o poi arriverà. È stato il secondo pensiero, dei ragazzi in campo, dei pochi italiani sugli spalti del Maradona e dei tanti incollati alla Tv. Neanche questo però ha trovato pratica attuazione, e la giocata, confusa e frenetica come un’imprevista notte d’amore, l’han trovata gli altri.
A cinque minuti dalla fine Luciano Rodriguez ha dato una testata ai nostri sogni di gloria e stavolta Desplanches, straordinario interprete del ruolo di portiere, ha dovuto arrendersi.
Non si può dire non l’abbiano meritata, i giovani uruguaiani. Determinati, forti e cattivi quanto basta per destabilizzare un squadra tecnicamente non inferiore ma con meno ardore agonistico. Bravi lo stesso i ragazzi di Nunziata, anzi bravissimi. Però queste finali perse stanno diventando una triste abitudine.