La decisione era nell’aria, ma da ieri ha assunto i crismi dell’ufficialità: l’erba di Wimbledon non verrà calcata da atleti russi e bielorussi per l’edizione del 2022. Il tennis, che era rimasto il solo sport a non aver imposto esclusioni, si allinea alle tante discipline di squadra che già avevano sancito l’impossibilità di ospitare all’interno del loro movimento atleti di nazionalità russa o bielorussa. Tanti addetti ai lavori hanno preso le distanze da questa decisione, che invece ha trovato immediati consensi nei tennisti ucraini Dolgopolov e Svitolina.
Quest’ultima ha motivato la propria posizione spiegando che il silenzio equivale a complicità. È evidente che non si possa prevedere una sorta di questionario per valutare la vicinanza di ogni atleta russo alle posizioni estreme di Putin. Resta però da stabilire quanto ci sia di giusto in questa traslazione automatica della colpa, che è, a ben guardare, la matrice di ogni genocidio. Punire un popolo, un’etnia, perché ogni individuo ad esso appartenente è colpevole è il dogma degli “sterminatori”. Ora, considerare Medvedev o Sabalenka alla stregua di Putin non è un processo molto differente da quello che semina l’odio indiscriminato. Nel 1936 Luz Long, tedesco candidato alla medaglia d’oro nella finale del salto in lungo, diede a Jesse Owens un consiglio sul punto ideale di stacco. Owens, che nei primi due salti aveva realizzato altrettanti “nulli”, colse il suggerimento e gli sottrasse la medaglia d’oro delle Olimpiadi di Berlino, quelle che Hitler voleva utilizzare per supportare la teoria della superiorità della razza ariana. Nacque un’amicizia più forte della guerra e più forte del tempo. Long cadde, in Sicilia, nel 1943, a soli 30 anni, durante l’Operazione Husky delle forze alleate. Owens rispettò il volere del suo amico tedesco: nel 1951 si recò dal figlio, Kai, raccontandogli quanto entrambi schifassero l’abominio della guerra e rivelandogli tanti particolari della loro fitta corrispondenza epistolare.
Luz Long, l’ariano che si librava nell’aria e atterrava sulla sabbia con stile e potenza e Jesse Owens, la gazzella nera, il più grande atleta di sempre: due facce della stessa medaglia, due uomini affratellati e non divisi dallo sport. Perché lo sport è competizione leale, ma anche inclusione, amicizia, incontro di culture e tradizioni. Tal Pierre de Coubertin, barone, pedagogo, scrittore e tanto altro, unì i cinque continenti in una sola bandiera. Chissà cosa avrà pensato, dalla dimensione senza tempo e senza spazio, quando i suoi Giochi furono boicottati prima dal blocco dei paesi africani, nel 76, poi da quelli “occidentali” che non gradirono la sede di Mosca 1980, infine da quelli orientali, che non andarono a Los Angeles nel 1984. E chissà cosa penserà ora di Medvedev, Rublev e Sabalenka costretti a guardare perché i leader delle loro nazioni stanno compiendo stragi, tentando di affermare con la forza delle bombe e dei fucili le loro presunte ragioni. Se precludere non è mai un esercizio democratico, precludere nello sport è persino un ossimoro, perché lo sport è prima di ogni altra cosa inclusione. Quelli del torneo di Wimbledon, però, non la pensano così. E i numeri 2 del mondo, maschile e femminile, guarderanno il torneo londinese in Tv.
Ancora una volta abbiamo perso tutti, ancor prima di cominciare. Ben 171 anni fa, Giuseppe Mazzini chiudeva un suo discorso affermando “Verrà il giorno in cui un uomo si rivolgerà a ogni altro uomo con la dolce parola di fratello”. Quel giorno non è ancora arrivato.