Scusate, ma questa cosa qui proprio non la afferro. Sono anni che sentiamo parlare di quote rosa, di parità d’accesso delle donne alla vita politica e istituzionale, di equivalenze di genere nelle elezioni. E invece cosa ti combinano i partiti nell’anno di grazie 2022? Ti combinano che nelle liste di aspiranti a uno scranno le donne ce le mettono col contagocce.
Risultato: alle prossime amministrative del 12 giugno, nei 6 capoluoghi di Regione che vanno al voto, le aspiranti sindache sono rare come le foche monache. L’altra metà del cielo è infatti rappresentata da 18 candidate su 73 che diventano appena 30 su 162 se consideriamo anche gli altri 14 capoluoghi di Provincia. Poche, praticamente inesistenti, quasi mai nella rosa degli eleggibili (salvo una rarissima eccezione). Cosa è successo? Niente. E’ successo che anche questa volta la fatidica soglia del 51% è andata a farsi benedire. In altri termini, i principali partiti politici, non hanno cambiato di un ette i criteri di selezione della classe dirigente. Non lo ha fatto il Partito democratico di Enrico Letta: il Pd vanta zero candidate donne nelle principali città. Le cose non vanno meglio neanche nel centrodestra, dove invece negli ultimi anni abbiamo visto più donne ricoprire ruoli di vertice (una per tutti Giorgia Meloni): c’è una candidata per Fdl e Lega a Benevento, ma non rappresenta neppure tutta la coalizione di centrodestra e sfiderà il sindaco uscente Mastella. Ce n’è un’altra a Carbonia in Sardegna, ma non è tra le favorite (boicottata anche dai partiti pro Solinas). In questo quadro di immobilismo totale, c’è un’unica eccezione: il M5s ha candidato 7 donne. L’altra eccezione, estranea però a questa “classifica”, è la candidata di Pd e M5s per la Regione Calabria: i giallorossi sostengono Amalia Bruni. Si attendono lumi.